Con la sentenza n. 345/16 pubblicata il 31.03.2016, il Tribunale di Macerata, nel rigettare l’opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto da una Banca nei riguardi di una società debitrice e del suo fideiussore, affronta alcuni temi rilevanti, tra i quali spicca quello di una motivata applicazione della condanna “sanzionatoria” ex art. 96 comma 3 c.p.c.
Questa disposizione, lo ricordiamo, espone che “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”, e questo in conseguenza del fatto che la stessa parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave.
Nel caso de quo, la Banca predetta otteneva, nei confronti della società debitrice e del suo fideiussore, un decreto ingiuntivo per Euro 108.348,00, dovuti in relazione ad un prestito chirografario non onorato. In seguito all’opposizione al decreto ingiuntivo proposta dalla società debitrice e dal fideiussore, la Banca si costituiva in giudizio contestando le eccezioni delle controparti e chiedendo anche la condanna degli opponenti ai sensi del comma 3 dell’art. 96 c.p.c.
Il Tribunale di Macerata, nel respingere l’opposizione, accogliendo anche la domanda di condanna predetta, affermava il principio secondo cui la tutela contro gli effetti collaterali del processo assume rilevanza ex se, anche a fini risarcitori, di fronte alle iniziative o alle resistenze processuali abusive, coltivate con mala fede o colpa grave, che per questo non rappresenterebbero esercizio del diritto di difesa (ex art. 24 Cost.), ma mere attività ostruzionistiche, dilatorie o poste in essere con sviamento delle prerogative difensive.
L’istituto previsto dall’art. 96 del codice di rito, quindi, confluisce nelle c.d. condanne punitive, con le quali il giudice può (e, invero, deve) responsabilizzare la parte ad una giustizia sana e funzionale, scoraggiando il contenzioso fine a sé stesso – cosa che secondo il giudice marchigiano è proprio ciò che la società debitrice e il suo fideiussore hanno coltivato in questo caso.