Se la domanda nel titolo di questo intervento potrà sembrare strana, associata ad una sentenza della Corte di Cassazione, capiremo benissimo il lettore. Eppure, la risposta a tale quesito è proprio ciò che la Suprema Corte ha implicitamente affermato con la sentenza n. 8020/2016. In via di premessa, è utile ricordare come, quando si procede alla vendita di un immobile pignorato con incanto, chiunque – compreso un parente – è ammesso a fare offerte, ad eccezione del debitore. All’esito dell’incanto, l’immobile è aggiudicato all’ultimo offerente, ma, entro i 10 giorni successivi, eventuali terzi interessati possono ancora presentare delle offerte di acquisto, a condizione che il prezzo offerto superi di 1/5 quello raggiunto nell’incanto (il c.d. rincaro), come stabilisce l’art. 584 c.p.c. A questo punto, il nuovo aggiudicatario, per diventare proprietario a tutti gli effetti, deve versare il prezzo secondo l’offerta avanzata, nel termine e nel modo fissati dal giudice con ordinanza. Se questi non lo fa, il giudice dichiara decaduto l’aggiudicatario e questi perde la cauzione; a questo punto, il tribunale dovrà disporre un nuovo incanto. Ora si capirà perché questa lunga premessa fosse necessaria: il caso trattato dalla sentenza della Cassazione predetta, infatti, tratta proprio di un caso simile a questo, con nel particolare la moglie del proprietario pignorato che aveva presentato istanze di aumento di 1/5, successivamente all’aggiudicazione del bene da parte di altri, al fine di far prolungare la gara e riottenere l’immobile messo all’asta. Secondo la Suprema Corte, in particolare, in un caso del genere non scatta il reato di turbativa d’asta nei confronti del proprietario dell’immobile, trovandoci semplicemente di fronte all’uso legittimo del meccanismo previsto dal codice di procedura civile in materia di esecuzioni immobiliari; meccanismo che può essere lecitamente attivato dai parenti del proprietario.
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